venerdì 6 marzo 2020

Sul coronavirus, la scuola e altri isterismi



 La storia accade tutti i giorni quasi inconsapevolmente, senza che ce ne accorgiamo. Eppure la pagina  che si sta scrivendo segnerà un momento che difficilmente scorderemo. E non solo per il virus. Il Covid 19 (ormai tutti noi sappiamo cosa sia) ha portato con sé una lunga serie di fobie e isterie, che messe insieme, formano il quadro di una società impaurita, in cui la paura e la cattiva informazione annebbiano la ragione. I social, senza volerne nascondere taluni indubbi meriti, aumentano disinformazione e paura. Leggiamo ogni giorno centinaia di notizie false e infondate. Il diritto di parola selvaggio, incontrollato e indiscriminato annulla l’informazione. Un eccesso di informazioni che genera l’annichilimento delle stesse, quasi per un assurdo paradosso filosofico. 
La ragione, che dovrebbe guidarci, diventa cieca di fronte a questo bombardamento delle opinioni di chiunque; e spesso non riusciamo a decidere cosa sia vero o sia falso: ci lasciamo semplicemente portare dalle emozioni. Ma ora servirebbe lucidità. Servirebbe la freddezza, ma soprattutto la fiducia negli esperti, che -ahimè- si è sempre più erosa. Da anni si assiste a una progressivo discredito della preparazione specialista, delle competenze professionali e dello studio. La società dell’ipercomunicazione ha prodotto l’idea che tutti possano avere una propria opinione su ogni cosa (legittima, per carità) ma anche l’idea che quella opinione sia valida tanto quella degli esperti. Eccesso di comunicazione e perdita di fiducia sono un processo non nuovo nella società in cui tutti possiamo fare tutto. Ma oggi ciò mostra il suo volto più insensato e crudo. Il più feroce. E così viviamo nella paura, e brancoliamo ciechi in un nuova peste nera. Non sono Boccaccio e Manzoni ad essere tornati attuali, come leggevo qualche giorno fa. Ma loro più di altri hanno ben dipinto l’animo umano in preda alla paura del contagio. Oggi paghiamo lo scotto di anni di battaglie contro i vaccini, la scienza, gli esperti, i professori, i tecnici. E cosa ce ne viene se non paura e sospetto? La cultura dovrebbe insegnarci l’accoglienza, la lungimiranza, la lucidità. E invece siamo incapaci di arginare una massa di reazioni che il Coronavirus porta con sé. Leggo di treni fermati dalla folla impazzita, perché qualcuno ha tossito. Io stesso per uno starnuto allergico (sono allergico ai pollini da 30 anni) sono stato allontanato come il peggiore degli untori da una metro. E l’odio per i migranti è ora divenuto l’odio per chi ha un raffreddore. 
Anni di tagli indiscriminati alla sanità hanno peggiorato l’emergenza. Ma la prima emergenza è ancora una volta quella culturale, da lì parte tutto. E i tagli alla scuola non sono stati di meno. L’idea di una scuola efficiente, che producesse successo, ha incentivato cattive pratiche a discapito delle generazioni più giovani. I docenti sono spesso stati lasciati soli ai margini, come ultima fila di una resistenza culturale sempre più strenua. Ma l’odio non ha risparmiato nemmeno noi. Idem la mancanza di fiducia e la deprivazione del nostro titolo di studio. Chi sa cosa è meglio per i nostri figli, se non noi stessi? Ecco il mantra di molti genitori. E così via di seguito all’infamia verso i professionisti della scuola. Ma noi siamo vittime di quel processo di cui sopra, a cui ogni professionista, nel suo settore, è stato più o meno investito. Amici pediatri mi dicono di non passarsela poi tanto meglio. L’ignoranza e la paura alimentano l’odio. Per uscire da questo circolo vizioso dobbiamo attuare un vero e proprio processo di acculturazione di massa. Non è semplice.
Ora c’è anche la didattica a distanza. Ennesimo slogan in un paese stanco, e che dovrebbe ripartire dalla cultura. Dalla fiducia a quella cultura che ormai è sempre più bistrattata, a causa della  tecnocrazia dell’utile e del saper fare a tutti i costi. È un momento storico in cui non si può far altro, a quanto pare. E sia. Ma non facciamo la corsa a chi è più digitale o a chi è più bravo. Non c’è bisogno di mostrare i muscoli. Non dobbiamo insegnare questo. Eppure vedo docenti impazziti. Basterebbe prendere fiato e appellarci al senso della storia. Cercare di fare il meglio possibile, senza dimenticare i valori che ci hanno reso donne e uomini di intelletto. Ricordiamo sempre che la cultura è humanitas. È incontro con l’altro, interazione, reciprocità, sguardi, sorrisi. È la capacità di leggere il nostro tempo con chiarezza. Siamo realisti, tutti i computer del mondo non possono sostituire quel processo di educazione, che tira fuori (nel senso davvero etimologico) il talento da ogni persona. Le Humanae Litterae ci hanno insegnato la necessità di riscoprirci uomini fra gli uomini. E allora facciamolo. Ma senza isterie, nazionalismi e slogan. Cerchiamo di scrivere una pagina di storia degna di questo nome. E buon lavoro a tutti.

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