Questo post nasce da una telefonata serale. Una di
quelle lunghe e assai piacevoli che hai con una vecchia amica. Una telefonata
dove parli di tutto e di niente; una di quelle in cui a un certo punto inizi a
parlare dei vecchi amici. E attraverso di essi finisci per riflettere sulla tua
vita e sulla tua condizione. Per scarto con gli altri, ma anche per contrasto e
analogia. A quel punto mi sono reso conto che forse valeva la pena raccontare
tutto quello che andrebbe detto sull’università, sui dottorati e sui post doc.
Senza veli favolistici o speranze rassicuranti. La verità di chi ci è passato e
ha vissuto in prima persona questa esperienza. Con la consapevolezza che è una
condizione assolutamente soggettiva e personale. Ma applicabile alla maggioranza
dei casi. Sono pochi, anzi pochissimi, quelli che restano esclusi da tutto ciò.
Andrebbe detto che vincere un dottorato con o senza
borsa non significa trovare un lavoro, affatto. Veramente si dovrebbe dire che
un dottorato senza borsa è una scelta troppo difficile da accettare. Rilascia
un titolo, è vero. Ma poi? Si è costretti a lavorare tre anni praticamente
gratis. Senza considerare le spese di libri, fotocopie, viaggi e convegni a cui
si è sottoposti. Spese che esulano dalle tasse che un dottorando senza borsa
deve all’ateneo. Andrebbe detto che fare un dottorato non significa mettere un
piede all’università. Andrebbe detto che alcuni professori illudono i ragazzi
con false speranze, che nella maggior parte dei casi sono puntualmente
disattese. Bisogna dire che quell’assegno, quel rimborso, quella borsa e quel
contratto talvolta millantato dai grandi accademici di fatto non arriverà mai.
Andrebbe detto che spesso oltre a fare ricerca un dottorando è coinvolto nella
didattica, negli esami, nei seminari, nei progetti di ricerca, nei comitati
redazionali e nei convegni. Certo tutto ciò è una crescita professionale. Ma
dopo questa crescita perché non ci viene detto che la professione non ci sarà?
Credo che ai dottorandi bisognerebbe dire “caro/a fai questa bella esperienza.
Impara. Studia. Ma sappi che dopo i tre anni è tutto finito. Sei sicuro di
voler investire così tanto?” Un investimento che spesso è prima di tutto
emotivo.
Ben presto ci si ritrova a fare i conti col post
dottorato. Che non è solo un ulteriore periodo di formazione. Anzi non lo è
quasi mai. Ci si ritrova con un bel titolo in tasca ma senza una anzianità
lavorativa pregressa. Da un lato si finisce per essere troppo titolati per
un’azienda, ma senza esperienza.
Dall’altro impossibilitati ad accedere ad una carriera universitaria.
Per quest’ultima ci vuole molto altro, troppo spesso indipendente dal talento.
E così iniziano a nascere diversi tipi umani, tutti trentenni.
I frustrati per avere un titolo importante ma non riconosciuto. I senza lavoro.
Gli stressati e ansiosi. Quelli con gli attacchi di panico. Gli insoddisfatti. I
precari della scuola. I neo genitori di famiglia a carico dei nonni, convivenza
inclusa. Quelli che si reinventano. Gli eterni studenti che tornano a fare i
camerieri nei pub durante il weekend. I professori di lezioni private. Infine
ci sono quelli che rifiutano la realtà e credono di lavorare ancora
all’università. Ma senza soldi. Forse si sveglieranno quando è troppo tardi.
Tutto questo andrebbe detto con chiarezza. Non fra
le righe.
Nessun commento:
Posta un commento