martedì 25 febbraio 2014

Quello che non si dice su un dottorato

Questo post nasce da una telefonata serale. Una di quelle lunghe e assai piacevoli che hai con una vecchia amica. Una telefonata dove parli di tutto e di niente; una di quelle in cui a un certo punto inizi a parlare dei vecchi amici. E attraverso di essi finisci per riflettere sulla tua vita e sulla tua condizione. Per scarto con gli altri, ma anche per contrasto e analogia. A quel punto mi sono reso conto che forse valeva la pena raccontare tutto quello che andrebbe detto sull’università, sui dottorati e sui post doc. Senza veli favolistici o speranze rassicuranti. La verità di chi ci è passato e ha vissuto in prima persona questa esperienza. Con la consapevolezza che è una condizione assolutamente soggettiva e personale. Ma applicabile alla maggioranza dei casi. Sono pochi, anzi pochissimi, quelli che restano esclusi da tutto ciò.

Andrebbe detto che vincere un dottorato con o senza borsa non significa trovare un lavoro, affatto. Veramente si dovrebbe dire che un dottorato senza borsa è una scelta troppo difficile da accettare. Rilascia un titolo, è vero. Ma poi? Si è costretti a lavorare tre anni praticamente gratis. Senza considerare le spese di libri, fotocopie, viaggi e convegni a cui si è sottoposti. Spese che esulano dalle tasse che un dottorando senza borsa deve all’ateneo. Andrebbe detto che fare un dottorato non significa mettere un piede all’università. Andrebbe detto che alcuni professori illudono i ragazzi con false speranze, che nella maggior parte dei casi sono puntualmente disattese. Bisogna dire che quell’assegno, quel rimborso, quella borsa e quel contratto talvolta millantato dai grandi accademici di fatto non arriverà mai. Andrebbe detto che spesso oltre a fare ricerca un dottorando è coinvolto nella didattica, negli esami, nei seminari, nei progetti di ricerca, nei comitati redazionali e nei convegni. Certo tutto ciò è una crescita professionale. Ma dopo questa crescita perché non ci viene detto che la professione non ci sarà? Credo che ai dottorandi bisognerebbe dire “caro/a fai questa bella esperienza. Impara. Studia. Ma sappi che dopo i tre anni è tutto finito. Sei sicuro di voler investire così tanto?” Un investimento che spesso è prima di tutto emotivo.
Ben presto ci si ritrova a fare i conti col post dottorato. Che non è solo un ulteriore periodo di formazione. Anzi non lo è quasi mai. Ci si ritrova con un bel titolo in tasca ma senza una anzianità lavorativa pregressa. Da un lato si finisce per essere troppo titolati per un’azienda, ma senza esperienza.  Dall’altro impossibilitati ad accedere ad una carriera universitaria. Per quest’ultima ci vuole molto altro, troppo spesso indipendente dal talento.
E così iniziano a nascere diversi tipi umani, tutti trentenni. I frustrati per avere un titolo importante ma non riconosciuto. I senza lavoro. Gli stressati e ansiosi. Quelli con gli attacchi di panico. Gli insoddisfatti. I precari della scuola. I neo genitori di famiglia a carico dei nonni, convivenza inclusa. Quelli che si reinventano. Gli eterni studenti che tornano a fare i camerieri nei pub durante il weekend. I professori di lezioni private. Infine ci sono quelli che rifiutano la realtà e credono di lavorare ancora all’università. Ma senza soldi. Forse si sveglieranno quando è troppo tardi.
Tutto questo andrebbe detto con chiarezza. Non fra le righe. 

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