Soffi di romanzo

Questa sezione del blog è dedicata alle storie non ancora scritte. Sono tracce di romanzo. Possono essere brevi racconti compiuti e finiti nella loro brevità. Oppure un semplice momento. Un attimo di una storia più grande, ancora da scrivere. Alcuni di questi personaggi continueranno a parlare e vivere, altri resteranno immersi in quell'istante in cui sono stati ritratti. 








Cloe


Inspirò profondamente fino ad allargare le narici. L’aria frizzante le punse il naso. Alzò il mento e sorrise. La scalata fin su al monte era stata faticosa, ma ne era valsa la pena. Il cielo ora era più azzurro, e il sole purissimo e lucente era bellissimo. Il verde intorno era di un colore brillante. Mai visto prima di ora.
Cloe si guardava intorno estasiata. Il panorama era sorprendente e le case in lontananza, verso la vallata, erano tutte piccolissime. Guardò il sole fino a accecarsi. Una lacrima fragile e pesante le rigò il volto. Frugò nella tasca e cacciò una foto. Era ruvida e maltrattata. Quanto lo aveva amato. Fabio era stato l’amore della sua vita. Intenso e viscerale. Puro e animale. Quell’uomo era diventato il suo respiro. Contava più della sua stessa vita. Erano stati insieme ore e giorni sul dondolo in veranda. Guardavano le distese di verde di fronte. Sempre accoccolati, sempre più uniti. Quante volte avevano immaginato casa loro. Bianca con una porta rossa laccata. I loro bambini. Cucinare insieme. La felicità di essere una sola cosa.
Ma Fabio non c’era più. Si erano lasciati. Era inverno, e il freddo aveva avvolto e spezzato il loro amore caldo e tenero. Il dolore aveva preso il suo posto. La sofferenza della perdita e la consapevolezza del non ritorno. Due anime gemelle fatte per non stare più insieme. Ma fatte solo per cercarsi e ritrovarsi senza mai più amarsi.
Poi era stata la volta di Lorenzo. Biondo e con uno sguardo ceruleo così profondo da riscaldare il cuore indurito di Cloe. Era stato un amore adulto, il loro. Senza passione, ma pieno di  vita. La donna lo aveva amato, rispettato e vissuto. Ma anche stavolta era calato il silenzio. Algido come una coltre di ghiaccio, buio come la nebbia notturna.
E ora era sola. Sola alla vita. Sola a se stessa. Ma continuava ad amare fortissimamente quei due uomini. Amava ciò che era stata per loro. Amava la parte di sé che era loro. Viveva nel ricordo di entrambi, come fossero ancora lì con lei. Era l’amore della sofferenza. Come se si potesse amare nell’assenza, più che nella presenza.
Guardò la vallata intorno e ricordò, fino a che quell’unica lacrima cadde lentamente a terra. Bagnò l’erba brillante e umida. Cloe ne raccolse un filo e lo lasciò trasportare da un alito di vento. Lo accompagnò con un soffio. Voleva essere libera come quel filo. Leggera e piena di speranza. Insensibile al peso della vita.
Accese l’Ipod. Era ora di tornare a valle. 







Michele



Michele era sul patio di casa. Osservava il mare davanti a sé. Immenso e azzurro. Avrebbe desiderato solcarlo per non tornare mai più. Una folata di vento mosse i suoi capelli e l’odore intenso dei limoni in giardino gli solleticò il naso. Quanto erano belli! Lì guardò. Erano gialli e grandi. Il colore era carico e il sole, che passava attraverso i rami dell’albero, li rendeva ancora più splendidi. Michele ricordò di quando suo padre aveva piantato quell’albero. Erano cresciuti insieme. E ora quel sapore caldo e acre gli ricordava la sua vita. Era cambiata. Aveva amato e sofferto. Pianto e riso. Ma oggi era solo. Si sentiva come il mare, profondo e solitario, eppure avrebbe voluto essere come i suoi limoni. Avrebbe desiderato essere in compagnia e col cuore riscaldato dal sole dell’affetto e dell’amore. Aveva sbagliato troppe volte. Aveva perso se stesso  dietro al mondo. E ora non poteva più amare. Sembrava quasi essersi dimenticavo come si faceva. Il mondo lo definiva single. Lui si definiva solo. E il suo cuore era avvolto dal gelo del nord. Dall’apatia. Dal vuoto. Quei limoni avrebbero potuto insegnargli ancora molto, se solo lo avesse voluto. Doveva ripartire da se stesso e dai suoi amici. E poi avrebbe ritrovato l’amore. Era necessario seminare una nuova vita nel suo cuore. Un nuovo modo di vedere la realtà. Perché continuare a buttare se stesso?
Un limone cadde a terra. Lo raccolse. Chissà se davvero avesse mai deciso di cambiare. 





Luna


Luna era sempre stata sola e libera. I suoi capelli erano ricci e capricciosi. Come lei stessa lo era stata una vita intera. Ribelle, volitiva, vivace. Piena di amici. Amici falsi, amici vuoti, amici di vetro. Che al primo problema fuggivano via. Scappavano veloce, come Luna dalle relazioni e dagli uomini. Amava passare da un letto ad un altro con la stessa rapidità di un felino. Non voleva legarsi troppo alla gente, eppure molti la conoscevano nel suo intimo. Corporeo, certo, ma pur sempre intimo. Chi fosse davvero e cosa volesse nessuno lo sapeva. Luna ne era felice. Peccato che non si fosse mai resa conto che neppure uno glielo chiedesse. A nessuno interessava chi fosse lei, davvero. Si sentiva libera e legata solo alla vita. Ai suoi desideri. Alle sue voglie. Peccato che questa liberà non profumasse di aria pulita, perché puzzava di solitudine. Puzzava di sere trascorse da sola nella sua stanza, a guardare il soffitto. Si sentiva viva. Credeva potesse avere tutto. 
Poi un giorno il suo mondo di carta crollò: una figlia. L’errore di una notte. Una distrazione che le si rivelò fatale. Ma da quel momento la sua vita cambiò. Non lo avrebbe mai immaginato, quando piangendo, da sola, decise di tenerla. Quella solitudine scambiata per libertà si riempì di immenso. Era amore. L’amore per una bambina, che diventò l’unica ragione di vita. Luna divenne mamma. Dimenticò ciò che era stata e si trasformò nella più dolce delle genitrici. La più attenta. La più scrupolosa. Nessuno avrebbe mai immaginato il suo passato.
Spense il forno. La torta per il sesto compleanno di Giulia era pronta. 





Gioele



Il vecchio era fermo già da qualche ora sulla veranda di casa. Aveva lo sguardo fisso sul vitigno davanti a lui. Si chiamava Gioele. Fissava con sguardo assorto quei grappoli di uva rubicondi, innaffiati dalla luce del tramonto. Pensava a quanto gli fosse costato quel vigneto. Una vita intera. Peccato che lo avesse compreso troppo tardi. L’uomo vedeva in ogni acino un’avventura della sua vita passata, quella che lo aveva distrutto. Gioele ricordava ancora vibrantemente i suoi anni giovanili di fama, gloria e successo. Quando l’unica cosa che contava era se stesso. I suoi abiti, le sue feste. All’epoca non si preoccupava di cosa dire o di cosa pensare. L’unico suo cruccio era cosa indossare, come apparire. Aveva terrore della gente, ma nessuno lo avrebbe mai detto. Così sicuro di sé, così pieno di mondanità. Eppure quella mondanità lo aveva distrutto. Si era creato un palco virtuale, su cui assecondare tutti. Ma aveva mai ascoltato se stesso? Chi era davvero? Quando comprese di dover scoprire queste cose, la sua vita sembrò frantumarsi fra le mani. Vittima e carnefice di se stesso. Così abituato ad ascoltare gli altri, da non sentire più la sua voce. Mentre gli anni passavano e la sua bellezza sfioriva si sentiva distrutto. Inutile, stravolto. Sbiadito. Aveva così soppresso la sua anima da non averne più una. Quando i muscoli lasciarono spazio alla pancia e i capelli neri e ricci ad una chioma brizzolata, Gioele perse se stesso. Non aveva neanche una donna al suo fianco. Non l’aveva mai cercata, preso com’era da sè e dal suo apparire pubblico. E così, solo, non sapeva più da che parte andare. Doveva risalire. Ma stavolta era difficilissimo. Doveva risalire per quella via dell’anima mai battuta. Quella in cui doveva essere solo se stesso. Senza la sua immagine. Era una strada nuova e lui aveva paura. Paura di perdere, paura di non farcela. Era davvero la sfida più ardua che la vita gli aveva beffardamente offerto. Doveva trovare una nuova forza dentro di lui. Quella che non sapeva nemmeno di avere. Altrimenti era la fine. Ma non poteva soccombere. Sotto tutto questo nulla, capiva di dover amare se stesso prima di tutto. Comunque. Sapeva di dover vivere, nonostante quel macigno che gli toglieva il respiro. L’anima c’era e andava scoperta. Anche se non sapeva come farlo. Anche se aveva paura di aver perso per sempre quel simulacro bello che era un tempo. Gli piaceva, troppo. Ma era stato la sua distruzione. Lo sapeva e ne aveva paura. Doveva cambiare se stesso, partendo da ciò che più aveva nascosto. Da ciò di cui aveva più paura. Un terrore che lo aveva immobilizzato per anni. E ora, a qualunque costo, si sarebbe dovuto muovere.
Il sole era ormai calato e Gioele rientrò in casa. Sorrise.




Guido e Alice


Il trillo del telefono spezzò la calura arida di quel pomeriggio. Erano le tre. E di lì a poco qualcosa sarebbe irrimediabilmente cambiato. Non era né un bene, né un male. Era la vita. La voce sottile e flebile all’altro capo del telefono chiese di Guido. Era la sua ragazza, ma dal quel tono tremulo era chiaro che c’era qualcosa di nuovo e di terribilmente pesante da dire.
«Ah. Ho capito. E tu, tu come stai?»
 Si limitò a rispondere quasi in silenzio il ragazzo. Il suo volto era pallido e la calura silente dell’ora parve risucchiare tutto. Anche l’anima del giovane. Appena riagganciò andò subito in cucina. C’era solo sua sorella, Alice, che era intenta a zuccherare il caffè.
«Giada è incinta» disse Guido, con una voce rotta da quella rivelazione che lo aveva travolto.
Alice si fermò di scatto, mentre quel caffè nero e bollente continuava a roteare nella macchinetta. D’un tratto la ragazza vide passare davanti a sé tutti gli anni della sua infanzia, con quel fratello amato e adorato. Le vacanze da bambini, le conchiglie che amavano raccogliere, le gare per chi ne avesse di più. La scuola e i compagni. I compiti in cui lei lo aiutava sempre. La pittura e l’amore con cui lei lo ammirava. E ora era tutto rotto. Adesso agli occhi della ragazza c’era qualcosa che si era perduto per sempre. Tutto sembrava come un vecchio carillon, la cui musica usciva cigolante e arrugginita. Nonostante si intravedesse ancora la melodia dolce e soave degli anni passati. Chissà se fosse tornato come era prima.




Amelie


Amelie amava sognare. Amava stare ore dietro le finestre umide di freddo, mentre fuori la pioggia scendeva flebile e copiosa. Con il cielo grigio, turgido e profondo. Sognava una vita diversa dalla sua. Quella che avrebbe voluto. Quella che immaginava ogni inverno nel tepore del camino, che fragoroso  scricchiolava. Sognava una favola. E cos’è una favola se non l’amore vero? Un amore che lascia senza fiato, quello per il quale un cuore non basta.  Già, sognava di innamorarsi. Di trovare un uomo buono come i cornetti appena sfornati. Quelli che cambiano la tua giornata. Quelli che ti ricordano che è domenica. Amelie voleva vivere un’eterna domenica di sole. Una vita intera come fosse un giorno speciale. Un giorno di luce, un giorno di amici, un giorno di affetti che continuamente ci ricordano di essere amati e di amare. Il suo desiderio era tutto là. Vivere d’amore. Ma spesso la vita ci inganna, perché non  può essere sempre domenica. Può piovere. E Amelie avrebbe dovuto imparare a vivere sotto la pioggia. 





L'incontro



“È libero?”
Sussurrò una voce  sconosciuta. Quando la donna alzò gli occhi vide davanti a sé un ragazzo alto e castano e quel suo sguardo cinerino sembrò guardare fin dentro l'anima della giovane. Era  profondo e sincero e parve squarciarle il cuore. Non aveva mai visto due occhi neri così profondi e conturbanti.  Eppure dietro tutto ciò c'era bontà, tenerezza, umanità. Anche il suo sorriso semplice e accogliente pareva aspettare qualcuno da abbracciare.
“Sì. Accomodati.”
Rispose lei, mentre continuava a scrutarlo con quei due occhi vispi e inquieti. C’era qualcosa in quel ragazzo che la attraeva. Lei era sempre stata  aperta al nuovo e curiosa, nonostante un animo profondo e imperscrutabile. Sembrava possedere dentro di sé uno scrigno segreto in bella vista. Tutti lo potevano ammirare, ma pochi riuscivano ad aprire quel cofanetto freddo e luminoso. Era un diamante, tutti ne apprezzavano la limpida bellezza, eppure era per pochi. Gli occhi di quel giovane erano riusciti ad aprirlo. Sarebbe stato l'inizio di una lunga storia d’amore. Era amicizia, altissimamente amicizia. Pura. Adamantina. Tenace.





Sofia


Era tardi e Sofia doveva scendere. Un’ultima guardata allo specchio e poi via. Nella penombra della stanza, fiocamente illuminata, il suo sguardo cadde sul viso stanco riflesso davanti a sé in quello specchio. Ma c’era dell’altro. La ragazza aveva due occhi neri, vispi e profondi. Avevano il mare dentro. Quel mare che non è mai stanco di riprovarci, che trova sempre la forza di sbattere contro le onde senza farsi male. Avevano l’eco muto della sofferenza, della gioia, dell’amore, della tenerezza. Avevano amato ed erano stati delusi, ma non avevano ancora smesso di sperare. C’era una vita profonda e tumultuosa in quegli occhi. Cercavano nuove strade, senza dimenticare quelle di sempre. Ma ora c’era una striatura in più: una lacrima pesante le rigò il volto.


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